L’abito non fa il monaco
Ancora mi viene da ridere ripensando a una candid camera di qualche anno fa, dove una attrice “travestita” da Monaca, entrava in un negozio di intimo nel centro di Milano, per acquistare un tanga di pizzo succinto, che nulla lasciava all’immaginazione.
Dalla mimica facciale della commessa si leggeva l’imbarazzo nel mostrare il campionario, e rispondere alle domande della cliente, che chiedeva delucidazioni in merito.
Qui il Detto calza a pennello, ma la scelta di un’apertura diretta non è per dare credibilità al proverbio, quanto più per riportarmi nell’attuale: considerando che l’habitus è diventato il dominatore incontrastato della comunicazione non verbale.
Apparentemente, nulla di nuovo sotto il sole, considerando che l’abbigliamento è stato un segno distintivo fin dei tempi remoti.
Ma chi ben conosce il significato rappresentativo dell’abito, non cede alle lusinghe della moda e mantiene il punto, indossandolo come un visibile segno di distinzione.
Tutt’ora i Dignitari della Chiesa vestono la Porpora per decretare l’appartenenza al lignaggio regale. Quella cerchia ristretta di Porporati che fanno parte del Collegio Cardinalizio: l’unico organo che si riunisce in Conclave per eleggere il Vescovo di Roma; il Papa.
Anche la finestrata cromia del Tartan – la stoffa con cui si fabbrica il Kilt indossato dagli scozzesi – identifica l’appartenenza al Clan.
Oppure ufficializza una ricorrenza importante: come il “Duke of Fife tartan” disegnato in occasione del matrimonio tra Alexander Duff, primo Duca di Fife e la Principessa Luisa.
La storia recente racconta che addirittura un capo di abbigliamento come l’Eskimo, è stato indossato dagli studenti negli anni 70 in segno di protesta.
O la sciarpa color Fucsia, portata con veemenza dal Movimento Femminista, perché ritenuto un colore audace e trasgressivo.
Purtroppo, in Italia come in altre Nazioni, l’abito ha perso il suo significato rappresentativo, per assumere altre discutibili tendenze.
Così, dietro i banchi di scuola spuntano le minigonne turboventilate e gli Hot Pants inguinali; che faranno pure baluginare le pupille ai compagni di classe, ma probabilmente sono più adatti a una festa su una spiaggia della Versilia.
E che dire dei giovincelli, con cappellino a visiera – roteata al contrario – e Bermuda hawaiane, che varcano spavaldi la soglia dell’Università, senza quel timore reverenziale che un tempo incuteva l’ateneo.
I bene informati mi dicono che: adesso si usa così.
Accetto l’imbeccata però ritengo che il buon gusto non va mai in soffitta.
Mi mette a disagio incontrare nelle Sale da Concerto – quando si poteva ancora accedere, bei tempi – procaci donzelle scollacciate con le “ciocie” ai piedi, accompagnarsi al consorte inguainato nella “stretch shirt” che fatica a contenere l’incipiente curva del benessere.
No, non mi è andato di traverso il the a colazione!
Però ho motivo di credere che stiamo un po’ tutti perdendo di vista il significato di ciò che stiamo facendo, e di come lo facciamo.
Non invoco la restaurazione perché, se c’è qualcuno avulso alle divise, quello sono proprio io.
Tuttavia ritengo che in particolari situazioni e in certi ambienti, indossare un abito appropriato sia un segno distintivo.
Non perché si rispetta la regola. Semplicemente perché si dissocia il Tempo Rituale dal Tempo Quotidiano.
Altrimenti le giornate si susseguono tutte uguali. E la noia, preludio dell’inedia, ci invade senza ritegno.
Celebrare degnamente il Tempo Rituale è perpetuare il ricordo tramite il gesto che assume un profondo significato, perché racchiude l’essenza del messaggio che trova la sua epifania nel Tempo Presente.
Distinguere il Tempo Rituale dal Tempo Quotidiano – che richiede di essere celebrato con un habitus acconcio – nobilita il gesto e lo trasforma da una consuetudine ordinaria a un’esternazione significante.
Qualche giorno fa ho visto un servizio in televisione che illustrava un progetto interessante, domiciliato nel reparto oncologico di un ospedale romano. Alcune estetiste e parrucchiere, offrivano volontariamente le loro competenze, abbellivano le degenti, e insegnavano loro ad utilizzare i prodotti cosmetici in modo corretto, per sentirsi nuovamente desiderate e belle. Un’idea straordinaria, e parte integrante della cura.
Prendersi cura si sé è rispettare sé stessi e di conseguenza rispettare anche gli altri.
E il rispetto si può esternare con un gesto semplice, come quello di indossare un abito adatto a ogni situazione, senza lasciarsi attraversare dal dubbio che sia una limitazione della propria libertà.
Essere liberi non è andare a scuola con le unghie pittate di verde e il Top ascellare. Tantomeno indossare i jeans giro-natica o le maglie fintamente sdrucite.
Essere liberi è voltare le spalle al bieco conformismo, dettato da chi sa come muoversi nel mondo del marketing, e trovare una vera alternativa.
Essere originali semplicemente indossando “un jaens e una maglietta”.
Perché il solo fatto che la indossi tu, e lei risplenda con la luce della tua essenza, ti rende unico.
In quanto al dress code – chiedo venia ai puristi della lingua italiana – mi ritengo fortunato: perché sono nato uomo (ma non credo sia questa la fortuna) e abito a Torino.
E… almeno per ora, posso ancora scegliere che cosa mettermi addosso quando esco di casa.
Ma se fossi nato donna a Jalalabad, dove per uscire di casa sono costretta a indossare il Burka, non so se avrei retto l’impatto.
Però, a pensarci bene: che figata guardare gli altri senza essere visti!